The story of an Art without borders

by Serena Nardoni

The story of an Art without borders: exchanges of glances and gestures beyond the frame

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In a traditional Art fruition system, we are naturally and conventionally led to relate with the artist through his works, to which he delivers historical facts, ideas and inner motions, so that they are transmitted and celebrated by the present and future collective memory.

In this sense, it is evident that the fundamental cornerstone of the communicative relationship between the artist and the observer is constituted by the artwork, which can provide multiple interpretations and be susceptible to different interpretations, depending on the audience, on the historical moment and on the cultural and experiential background of the single individual. The artists, who by definition are visionaries able to grasp in advance the political-social problems of their time and beyond, are well aware of it and whom that best manage the expressive and technical tools at their disposal, can bring whom recognize themselves into the emotional and cultural dynamics that the author most wants to bring out.

The artist launches his appeal to the mass, holds out his hand and waits for his audience to respond, because without an audience, it is evident, Art loses its social function and with it the ability to communicate.

How this attention seeking manifests itself within the work, is something that we can only try to come close, without any pretense of categorizing it, as this aspect is only one of the infinite reflections of the intimate artistic expressiveness.

What is certain is that the results of these reflections that we could trace in the Art History are innumerable and here we will think about a selection that helps us to retrace the role of the audience and its relationship with artworks, opening the narration beyond the physical boundary of the support.

It is no coincidence that it was a painter, Leonardo, who returned several times, in his Treatise on Painting, to the theme of the horizon and the mutability of the border between earth and sky, which varies not only according to our geographical position, but also in relation to our way of perceiving the changeability and contingency of the physical world.

The reflections that Leonardo gives us are the first attempt to open the discussion on a non-astronomical-scientific horizon, but on a perceptive one, shifting the focus on the role of the observer, raising his point of view to “privileged”.

We will see, in fact, as opening a window in the scene of the painting, suspending a veil or a curtain between us and the pictorial image – as Man smoking a pipe by the Dutch Gerrit Dou, in which the painter emerges beyond a painted curtain that looks like belong more to the dimension of the viewer than of the painting – that is, by painting a fake frame within the physical one, so the clear distinction between fiction and reality may waver – this is the case of the Girl in a Frame by Rembrandt, whose hands, with an incredible trompe-l’oeil effect, seem to cross the threshold to reach out towards the observer, beyond the painting.

Storia di un’Arte senza confini:  scambi di sguardi e gesti oltre la cornice

ITA

In un sistema di fruizione dell’Arte di matrice tradizionale, siamo naturalmente e convenzionalmente portati a relazionarci con l’artista attraverso le sue opere, alle quali egli consegna fatti storici, idee e moti interiori, affinché siano trasmessi e celebrati dalla memoria collettiva presente e futura.

In questo senso, è evidente come il cardine fondamentale del rapporto comunicativo tra artista ed osservatore sia costituito dall’opera d’arte, la quale può fornire molteplici chiavi di lettura ed essere suscettibile di diverse interpretazioni, a seconda del pubblico che le si ponga dinanzi, del momento storico presente e del background culturale ed esperienziale del singolo individuo. Gli artisti, che per definizione sono dei visionari in grado di cogliere in anticipo problematiche politico-sociali del proprio tempo e oltre, ne sono ben consapevoli e chi tra loro meglio padroneggia gli strumenti espressivi e tecnici a sua disposizione, può dirsi in grado di manipolare quanti si riconoscano nelle dinamiche emotive e culturali che l’autore vuole maggiormente far emergere.

L’artista lancia il suo appello alla massa, le tende la mano e attende che sia il suo pubblico a rispondere, perché senza pubblico, è evidente, l’Arte perde la sua funzione sociale e con essa la possibilità di comunicare.

In che modo questa ricerca di attenzioni si manifesti all’interno dell’opera è qualcosa che possiamo solo tentare di sfiorare, senza alcuna pretesa di trarne delle categorizzazioni, dato che, come si è detto, questo aspetto è solo uno degli infiniti riflessi dell’intima espressività artistica.

Certo è che sono innumerevoli gli esiti di tali riflessioni che potremmo rintracciare nella Storia dell’Arte e in questa sede ragioneremo su una selezione che ci aiuti a ripercorrere il ruolo del pubblico e il suo rapporto con le opere d’arte, aprendo la narrazione oltre il confine fisico del supporto.

Non è un caso che sia stato proprio un pittore, Leonardo, a tornare più volte, nel suo Trattato della Pittura, sul tema dell’orizzonte e della mutevolezza del confine tra terra e cielo, che varia non solo in funzione della nostra posizione geografica, ma anche in relazione al nostro modo di percepire la mutevolezza e contingenza del mondo fisico.

Le riflessioni che Leonardo ci consegna sono il primo tentativo di aprire la discussione su un orizzonte non astronomico-scientifico, bensì percettivo, spostando il focus sul ruolo dell’osservatore, ergendo il suo punto di vista a “privilegiato”.

Vedremo, infatti, come aprendo una finestra nella scena del quadro, sospendendo un velo o un sipario tra noi e l’immagine pittorica – come Uomo che fuma una pipa dell’olandese Gerrit Dou, in cui il pittore emerge oltre un tendaggio dipinto che sembra appartenere più alla dimensione dello spettatore che del quadro – ovvero dipingendo una cornice fittizia all’interno di quella materiale, la netta distinzione tra finzione e realtà possa vacillare – è questo il caso della Ragazza in una cornice di Rembrandt, le cui mani, con un incredibile effetto di trompe-l’oeil, sembrano varcare la soglia per protendersi verso l’osservatore, oltre il quadro.

Gerrit Dou, Uomo che fuma una pipa, around 1650, oil on panel, 48 × 37 cm, Rijksmuseum, Amsterdam
Rembrandt, Ragazza in una cornice, 1641, oil on canvas, 105.5 x 76 cm, Royal Castle in Warsaw

ENG

The engagement does not occur only through optical illusions and perspective games, but is also manifested – and above all – in looks and gestures, as in Venus, Mars and Love, a painting by Guercino dated 1633 and preserved in the Estensi Galleries of Modena. It doesn’t matter that the original emissary and recipient was the Duke of Este: anyone who places himself in front of the painting immediately becomes an accomplice of the betrayal that is about to take place behind Mars, between Venus and the observer himself, which the goddess indicates to Love as favorite choice, passing from “observer” to “observed”.

In the same way, the role of the audience is also often profoundly distorted: from passive spectator to actor catapulted into the dimension of the artwork. A process that also has its origins in historicized art and the results are largely reflected in painting between the sixteenth and eighteenth centuries.

«If the threshold of the painted space is a place of transition and transaction, the real space of the viewer is not radically alien to that of the image. Indeed, more and more often in painting, and sometimes in very sophisticated forms, the observer in front of the painting ends up interfering with what is represented there. Although passing through, he does not go unnoticed, the characters depicted notice him and react.

Even a “blind man” – in Bartolomeo Schedoni’s evocative painting – “feels” the motionless and silent presence of someone standing in front of him and stares at him awaiting: the observer, paradoxically, becomes observed. The image takes advantage of it and speaks”.

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Il coinvolgimento non avviene solo tramite illusioni ottiche e giochi prospettici, ma si manifesta anche – e soprattutto – in sguardi e gesti, come in Venere, Marte e Amore, dipinto del Guercino datato 1633 e conservato nelle Gallerie Estensi di Modena. Poco importa che il committente e destinatario originario fosse il Duca d’Este: chiunque si ponga dinanzi al quadro diventa immediatamente complice del tradimento che sta per consumarsi alle spalle di Marte, tra Venere e l’osservatore stesso, che la dea indica ad Amore quale scelta prediletta, passando da “osservatore” a “osservato”.

Allo stesso modo, anche il ruolo del pubblico è spesso profondamente stravolto: da spettatore passivo ad attore catapultato nella dimensione dell’opera d’arte. Un processo che ha anch’esso origine nell’arte storicizzata e sui cui esiti gli artisti hanno largamente riflettuto nella pittura a cavallo tra il XVI e XVIII secolo.

«Se la soglia dello spazio dipinto è un luogo di transizione e transazione, lo spazio reale dello spettatore non è radicalmente estraneo a quello dell’immagine. Anzi, sempre più spesso nella pittura tra, e in forme a volte assai sofisticate, l’osservatore davanti al quadro finisce per interferire con ciò che vi è rappresentato. Ancorché di passaggio, non passa inosservato, i personaggi raffigurati se ne accorgono e reagiscono. Persino un cieco – nel suggestivo dipinto di Bartolomeo Schedoni – “avverte” la presenza, per quanto immobile e silenziosa, di qualcuno lì di fronte e lo fissa in attesa: l’osservatore, paradossalmente, diventa osservato. E l’immagine ne approfitta, si pronuncia».

Roberto Schedoni, La Carità, 1611, oil on canvas, 180cm x 128 cm, Capodimonte Gallery, Naples

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In the History of art it was the Baroque that marked a fundamental turning point: the emotional involvement of the spectator and his active participation are a symptom of a work that is transformed into an all-round theatrical show, taking care of the details of presentation, light , staging, surprise effect and fades. The driving force of this revolution is the Catholic Church – healed with the Council of Trent (1545-1563) the bloody fracture opened by the Protestant reform, which needs to get back to its worshipper and to do so, it tries the path of an emotional approach, with telling a new story of doctrine, in a more intimate and engaging way, often resorting to living representations and spectacular apparati effimeri. What began as a religious struggle actually extends to human conduct and politics: the relationship between the Individual and the State reflects what is between Man and God. For Protestants, in fact, the only link between the divine and worldly is Grace, but nobody can achieve that. Catholics, in the other hand, affirm that God contemplates the role of man and weighs his choices, trying to orient them in a salvific perspective. Nevertheless, the religious question also has a social implication: the dispute is between the idea of having an individual faith – proper to the Protestant Credo – and a collective faith, of sharing the Word of God. Culture, in this sense, acts as an instrument of knowledge and awareness, which opens the way to Salvation. For this reason the Church, starting from the seventeenth century, will embrace the idea of communicating the saving message of God in an immediate and understandable language to every social category, from the scholar to the illiterate people.

And to do this, what better way than Art? So Art reinvents itself, setting itself up as a model of behavior, with results that often degenerate towards persuasion. All this has a substantial consequence: the work becomes the means of communication and rhetoric – par excellence.

The artist is aware of the role to which he is called, and accepts it: “someone to be able to effectively persuade, must be persuaded: even more than the truth or the goodness of things that are affirmed and to which one wants to persuade, than the possibility and usefulness of human communication” – writes Argan. And so in Pietro da Cortona, for example, “decoration is no longer a fairy tale, but prayer and spectacle: artifice, no longer disguised, shows that for Cortona art is the specific means of allegorical celebration”.

Here the Baroque performance goes on stage with the great names of the History of Art, such as the aforementioned Guercino and Rembrandt, Gian Lorenzo Bernini, Caravaggio, Orazio and Artemisia Gentileschi, Pieter Paul Rubens, Annibale Carracci, Johannes Vermeer, Antoon Van Dyck, Nicolas Poussin, just to name a few.

The results of this artistic current are absolutely new and destined to write a new chapter in the relationship between the artwork and its user – which, right from the advent of the Baroque, we can fully begin to define “spectator”.

In painting, the canvases become theatrical backdrops, framed by heavy draperies of an intense red color, as in Caravaggio’s interpretation of the episode of Judith and Holofernes, in which the scene is offered to the spectator who finds himself an accomplice of the crime, an inappropriate intruder. Therefore the participation of the observer can also hide a disturbing interpretation and instill a sense of unease, as in the case of Salomè by Guido Reni, in which the spectator is dressed in the role of Herod who receives the head of Baptist as an offering; or Mattia Preti’s Cristo e l’adultera, in which Jesus invites us to be the first to throw the stone.

 

ITA

Nella storia dell’arte è stato il Barocco a segnare un momento di svolta fondamentale: il coinvolgimento emotivo dello spettatore e la sua partecipazione attiva sono sintomo di un’opera che si trasforma in uno spettacolo teatrale a tutto tondo, curando nei dettagli presentazione, luce, allestimento, effetto sorpresa e dissolvenze. Il motore di questa rivoluzione è la Chiesa Cattolica che, risanata con il Concilio di Trento (1545-1563) la sanguinosa frattura aperta dalla riforma protestante, ha bisogno di recuperare il rapporto con i suoi fedeli e per farlo tenta la strada dell’approccio emotivo, raccontando una nuova storia della dottrina, in chiave più intima e coinvolgente, spesso ricorrendo a rappresentazioni viventi e spettacolari apparati effimeri. Quella che nasce come lotta religiosa in realtà si estende alla condotta umana e alla politica: il rapporto tra individuo e Stato riflette quello tra uomo e Dio. Per i protestanti, infatti, il solo tramite tra divino e terreno è la Grazia, ma nulla l’uomo può fare per ottenerla. I cattolici affermano, invece, che Dio contempla il ruolo dell’uomo e pesa le sue scelte, cercando di orientarle in un’ottica salvifica. Non di meno, la questione religiosa ha anche un risvolto sociale: la disputa è tra l’idea di una fede vissuta individualmente – propria del Credo protestante – e una fede collettiva, di condivisione della Parola di Dio. La Cultura, in questo senso, si comporta come strumento di conoscenza e consapevolezza, che apre la strada alla Salvezza. Per questo la Chiesa, a partire dal Seicento, sposerà l’idea di comunicare il messaggio salvifico di Dio con un linguaggio immediato e comprensibile ad ogni strato sociale, dall’erudito al popolo analfabeta.

E per fare questo, quale strumento migliore dell’Arte? Ecco, quindi, che l’Arte si reinventa, ergendosi a modello di comportamento, con esiti che spesso degenerano verso la persuasione. Tutto ciò comporta una conseguenza sostanziale: l’opera diventa il mezzo di comunicazione – e di retorica – per eccellenza.

L’artista è consapevole del ruolo a cui è chiamato, e lo accetta: «per potere efficacemente persuadere – scrive Argan – bisogna essere persuasi: più ancora che della verità o della bontà delle cose che si affermano ed a cui si vuole persuadere, della possibilità e dell’utilità della comunicazione umana». E così in Pietro da Cortona, per esempio, «la decorazione non è più favola, ma orazione e spettacolo: l’artificio, non più dissimulato, mostra che per il Cortona l’arte è il mezzo specifico della celebrazione allegorica».

Ecco che lo spettacolo del Barocco va in scena con i grandi nomi della Storia dell’Arte, quali i già citati Guercino e Rembrandt, Gian Lorenzo Bernini, Caravaggio, Orazio e Artemisia Gentileschi, Pieter Paul Rubens, Annibale Carracci, Johannes Vermeer, Antoon Van Dyck, Nicolas Poussin, solo per citarne alcuni.

Gli esiti di questa corrente artistica sono assolutamente inediti e destinati a scrivere un nuovo capitolo del rapporto tra opera d’arte e fruitore – che, proprio dall’avvento del Barocco, possiamo a pieno titolo iniziare a definire “spettatore”.

In pittura, le tele diventano quinte teatrali, incorniciate da pesanti drappeggi di un intenso color rosso, come nell’interpretazione di Caravaggio dell’episodio di Giuditta e Oloferne, in cui la scena si offre allo spettatore che si ritrova complice del delitto, ovvero intruso inopportuno. Quindi la partecipazione dell’osservatore può anche celare una chiave di lettura inquietante e instillare un senso di disagio, come nel caso della Salomè di Guido Reni, in cui lo spettatore si trova a vestire i panni di Erode che riceve in offerta la testa del Battista; oppure del Cristo e l’adultera di Mattia Preti, nel quale Gesù ci invita a scagliare per primi la pietra.

Mattia Preti, Cristo e l’adultera, around 1630-1650, oil on canvas, 106 × 133 cm, Galleria Spada, Rome

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But beyond the frame you can take a look to the most famous bedrooms in the History of Art and hope to meet the gaze of an impertinent young man or a woman with persuasive curves, as in the most famous paintings by Rubens.

Still, the art of the seventeenth century has experimented not only with painting, as a means of communication and narrative involvement. The reference, in this sense, is to the apparati effimeri which, especially in moments of celebration, have given a new face to the urban landscape.

The occasions were the most disparate, both of a sacred and profane nature: from “commanded” religious holidays to the canonization of saints and the election of new popes; from the celebration of episodes taken from the life of the rulers, to the political events of the allied states, to the popular festivals of ancient tradition, such as the Carnival.

Some recurring characteristics brought together events of such a different nature and among all, the preference for urban space as an almost exclusive setting emerged. Here processions and triumphs unfolded, triumphal arches were placed along the streets, decorative devices and mobile lighting on the facades of houses, palaces and churches; the city with its spaces and its architecture was the protagonist of the event.

The work was almost always coordinated by an architect, chosen from among those most in vogue at the court. And in the seventeenth century, very few architects were able to compete with the respect and esteem enjoyed by Gian Lorenzo Bernini. Bernini’s “regie” are famous both at the court of Pope Urban VIII and, after his transfer to France at the French one. Of incredible magnificence, in particular, was the ephemeral theater built in San Pietro, in Rome, on the occasion of the canonization of Elizabeth of Portugal: at the intersection of the arms, under the dome, the architect created a wooden structure, decorated with fake marble, stucco and gilding, embellished with 24 columns interspersed with statues of 14 Portuguese rulers, painted with the miracles of the saint and banners.

Bernini also applied so much mastery in the spectacularization of art to the sculptural technique, of which he was the undisputed master. We think of Apollo and Daphne, a work with a Baroque flavor not only for the magnificence of the technical rendering and the exasperation of emotions, but also – and this is the point that most interests us for the purposes of our reflections – for the physical involvement of the user – spectator, that moves around the space of the work to grasp its narration.

The work, in fact, must be studied starting from a specific point of observation, that is, the one in which Daphne still has human features. The interesting thing is that the viewer, at first glance, only catches a young man intent on chasing a woman, who tries, in vain, to escape; only by looking for Daphne’s gaze, the spectator realizes that the human features are already abandoning the nymph, and are about to transform into something different. In what exactly, the observer discovers it only by ending the exploration of the work, from a perspective in which Daphne is now unrecognizable: the left leg has given way to the bark of a tree, the hair has become fronds and from the fingertips, like branches, bay leaves sprout.

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Ma oltre la cornice si può sbirciare nelle camere da letto più famose della Storia dell’Arte e sperare di incontrare lo sguardo di un impertinente giovane o di una donna dalle suadenti curve, come nei più celebri dipinti di Rubens.

Ancora, l’Arte del Seicento ha sperimentato non solo la pittura, come mezzo di comunicazione e coinvolgimento narrativo. Il riferimento, in questo senso, è agli apparati effimeri che, soprattutto nei momenti di festa, hanno dato nuovo volto al paesaggio urbano.

Le occasioni erano le più disparate, sia di natura sacra che profana: dalle feste religiose “comandate” alla canonizzazione di santi e l’elezione di nuovi papi; dalla celebrazione di episodi tratti dalla vita dei regnanti, alle vicende politiche degli stati alleati, fino alle feste popolari di antica tradizione, come il Carnevale.

Alcune caratteristiche ricorrenti accomunavano tra loro eventi di così diversa natura e tra tutte, emergeva la predilezione dello spazio urbano come ambientazione pressoché esclusiva. Qui si snodavano processioni e trionfi, si collocavano archi trionfali lungo le strade, apparati decorativi e d’illuminazione mobili sulle facciate di case, palazzi e chiese; la città con i suoi spazi e le sue architetture era protagonista dell’evento.

A coordinare i lavori era quasi sempre un architetto, scelto tra quelli più in voga a corte. E nel Seicento sono ben pochi gli architetti che hanno potuto competere con il rispetto e la stima goduti da Gian Lorenzo Bernini. Famose sono le “regie” del Bernini sia presso la corte di papa Urbano VIII che, dopo il suo trasferimento in Francia, presso quella francese. Di incredibile magnificenza fu, in particolare, il teatro effimero realizzato in San Pietro, a Roma, in occasione della canonizzazione di Elisabetta del Portogallo: all’incrocio dei bracci, sotto la cupola, l’architetto realizzò una struttura in legno, decorata con finti marmi, stucchi e dorature, impreziosita con 24 colonne intervallate da statue di 14 regnanti portoghesi, dipinte con i miracoli della santa e stendardi.

Tanta maestria nella spettacolarizzazione dell’Arte Bernini la applicò anche alla tecnica scultorea, di cui fu maestro indiscusso. Pensiamo all’Apollo e Dafne, opera dal sapore Barocco non solo per la magnificenza della resa tecnica e l’esasperazione delle emozioni, ma anche – ed è questo il punto che maggiormente ci interessa ai fini delle nostre riflessioni – per il coinvolgimento fisico del fruitore-spettatore, chiamato a muoversi intorno allo spazio dell’opera, per coglierne la narrazione.

L’opera, infatti, va studiata partendo da uno specifico punto di osservazione, ossia quello in cui Dafne ha ancora sembianze umane. La cosa interessante è che il fruitore, ad un primo sguardo, coglie solo un giovane intento a rincorrere una donna, la quale prova, invano, a sottrarsi alla cattura; solo cercando lo sguardo di Dafne lo spettatore realizza che le fattezze umane stanno già abbandonando la ninfa, in procinto di trasformarsi in qualcosa di diverso. In cosa, esattamente, l’osservatore lo scopre solo terminando l’esplorazione dell’opera, da una prospettiva in cui Dafne, ormai, è irriconoscibile: la gamba sinistra ha lasciato il posto alla corteccia di un albero, i capelli sono divenuti fronde e dalla punta delle dita, come rami, spuntano foglie di alloro.

 
Gian Lorenzo Bernini, Apollo and Daphne, 1622-1625, marble, 243 cm, Galleria Borghese, Rome.

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Here too, the invitation is to take an active part in connecting with the story told by the artist. Beyond the passive enjoyment, beyond the first impression and beyond what we are convinced we know and master, there is a world that is still inaccessible, which can lead us to the extreme consequence of feeling excluded precisely because they are placed on the same level as the narrative. This is the case of the incredible invention of Giandomenico Tiepolo, who in the painting Il Mondo Novo, with witty irony, knows how to surprise the viewer. What we see is many people, who flock to wait for their turn to be able to attend the show of the Mondo Novo, in fact, a sort of small walking theater that in the Venice of the eighteenth century – on the occasion of the Carnival – was put to disposition of the people in squares, to be able to observe plays of light and color and images often with an exotic flavor. What interests Tiepolo – beyond the painting – is that the true protagonists of the image are the spectators, painted from their back so their position reflects ours. “Public” in the modern meaning of the term, as an aggregation of users who share the convergence of the observation point in an object of interest that is the same for everyone.

The idea of establishing contact beyond the physical limit of the work persists in the History of Art, bringing out a continuity between historicized masterpieces and new technologies which, as we will deepen in subsequent reflections, moves precisely on the profound relationship that binds the images to the viewer, all the more so if these images are born with the specific intent of establishing a dialogic relationship with their interlocutors.

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L’invito, anche qui, è a prendere parte attivamente per entrare in connessione con la storia raccontata dall’artista. Oltre la fruizione passiva, oltre la prima impressione e oltre ciò che siamo convinti di conoscere e padroneggiare, c’è un mondo ancora inaccessibile, che può condurci fino all’estrema conseguenza di sentirci esclusi proprio perché posti sullo stesso piano della narrazione. È questo il caso dell’incredibile invenzione di Giandomenico Tiepolo, che nel dipinto Il Mondo Novo, con arguta ironia sa spiazzare lo spettatore. Quello che vediamo è una folta siepe di pubblico, che si accalca in attesa del proprio turno per poter assistere allo spettacolo del Mondo Novo, appunto, ossia una sorta di piccolo teatro ambulante che nella Venezia del Settecento – in occasione del Carnevale – era messo a disposizione del popolo nelle piazze, per poter osservare giochi di luce e colore ed immagini spesso dal sapore esotico. Ciò che interessa Tiepolo è che i veri protagonisti dell’immagine siano gli spettatori, ripresi di spalle perché la loro posizione rifletta la nostra, al di là del dipinto. “Pubblico” nell’accezione moderna del termine, quale aggregazione di utenti che condividono la convergenza del punto di osservazione in un oggetto di interesse che è il medesimo per tutti.

L’idea di stabilire un contatto oltre il limite fisico dell’opera persiste nella Storia dell’Arte, facendo emergere una continuità tra capolavori storicizzati e nuove tecnologie che, come avremo modo di approfondire in successive riflessioni, muove proprio sul rapporto profondo che lega le immagini al proprio spettatore, tanto più se tali immagini nascono con lo specifico intento di instaurare un rapporto dialogico con i propri interlocutori.

Giandomenico Tiepolo, Il Mondo Novo, 1791, detached fresco from the Villa Tiepolo in Zianigo (Venice), 205 x 525 cm. Venice, Museo del Settecento Veneziano Ca 'Rezzonico.

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In the first part of this column our reflections focused on the period of the seventeenth-eighteenth century, precisely because in the previous discussion we spoke of the decisive role assumed by the Counter-Reformation Church in the elaboration of new strategies for the communication and involvement of the worshippers.

History teaches us, therefore, that it is the great social, political and religious changes that convert what Walter Benjamin defines “the aura of the artwork” into a more narrative and inclusive dimension for the viewer.

In general, for Benjamin the term “aura” is associated with two peculiar characteristics of the work: “uniqueness and remoteness”, that is, distance and unapproachability to man. In this sense, defining the aura «however close it may be, a single appearance of a distance means nothing more than formulating […] the cultural value of the artwork. Distance is the opposite of closeness. What is substantially distant is the unapproachable. In fact, unapproachability is one of the main qualities of the cult image. It remains, by its nature, as far away as it is close ».

The spiritual and religious legacy inherent in this idea of ​​remoteness and intangibility, whose subversion we want to testify in this writing, will be evident to the reader, starting from two presuppositions or “circumstances, both connected with the increasing importance of the masses in current life.” In other words: making things, spatially and humanly closer, is a very lively need for the present masses, as much as the tendency to overcome the uniqueness of any data through the reception of its reproduction”.

Cesare Brandi in his review of the Italian publication of the essay Little history of photography, in 1966, will reproach him with a “more political than aesthetic” interpretation. According to Brandi, Benjamin intended “to save that much or little from the artwork that passes through even in reproduction, to definitively extinguish the” cultic ” or religious character that he still felt was at the base”. But for Brandi “in the secularization induced by reproduction, the artwork not only loses its cultic value, it loses itself. An imprint remains, like a footprint on the sand”.

Keeping Benjamin’s reflections as a privileged observation point from which to move further considerations, the moment of rupture and destruction of the aura would be placed in the affirmation of the avant-gardes of the early twentieth century. According to Benjamin, it was the Dadaists who were the first to have wanted “a ruthless annihilation of the aura of their products, on which, with the means of production, they imposed the trademark of reproduction”, simultaneously undermining both the concept of originality and creativity of an artwork to the supremacy of the idea (or, as historical reminders of the “concept”) over the artifact. This attitude has evidently created a not indifferent impasse in the Art System: on one hand, the drive towards expressive emancipation from nineteenth-century (it was Courbet who inaugurated the era of independent exhibitions with a staff organized entirely at his expense), on the another, the need to reconcile the new expressive language with the Art Market and the audience, given that the true – and declared – objective of this movement was to arouse public indignation: «the artwork became a bullet. It was projected against the observer. It took on a tactile quality ».

The further leap that Benjamin fails to grasp, also in the light of the artistic results following the publication of his volume, is that the aura has not dissolved, but rather has shifted from the artwork to the artist, in his incessant effort to deny the “object” in its aesthetic fruition, to raise the idea.

A reversal of perspective started from Realism, is when Art takes on a new function, no longer celebratory and tautological, and characters and scenes from everyday life are introduced into the paintings. With the Avant-gardes of the early twentieth century, these fragments of reality take on a material connotation: it is the era of Cubist and Dadaist collages. This tactile sensitivity will affect the whole of the twentieth century, as the need to guide art towards the re-appropriation of life and reality, overcoming those now obsolete values ​​linked to abstraction and late surrealism. The twenty years between the fifties and sixties will be marked by a breach of cultural frontiers and the introduction of a new idea of ​​a collective dimension, unhinged from the old moral legacies.

In fact, the economic and social conditions linked to the consequences of the last Great War converge in the identification of different priorities between Europe and the United States of America: the latter, in particular, work on building a strong national identity, which can compete with the long cultural tradition of the Old Continent. However, the progress of the consumer society will allow the leveling and unification of the cultural language which, reinterpreted in a “domestic” key, enters into the consumer’s homes through advertising and new forms of popular expression 2.0.

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Nella prima parte di questa rubrica le nostre riflessioni si sono concentrate intorno al periodo del Sei-Settecento, proprio perché nella trattazione precedente si è parlato del ruolo determinante assunto dalla Chiesa controriformista nell’elaborazione di nuove strategie per la comunicazione e il coinvolgimento del pubblico di fedeli.

La storia ci insegna, quindi, che sono i grandi cambiamenti sociali, politici e religiosi a mutare quella che Walter Benjamin definisce “l’aura dell’opera d’arte” in una dimensione più narrativa e inclusiva per lo spettatore.

In generale, per Benjamin il termine “aura” si associa a due caratteri peculiari dell’opera: “unicità e lontananza”, ossia distanza e inavvicinabilità all’uomo. In questo senso, definire l’aura «un’apparizione unica di una distanza, per quanto essa possa essere vicina, non significa altro che formulare […] il valore cultuale dell’opera d’arte. La distanza è il contrario della vicinanza. Ciò che è sostanzialmente lontano è l’inavvicinabile. Di fatto l’inavvicinabilità è una delle qualità principali dell’immagine cultuale. Essa rimane, per sua natura, lontana per quanto vicina».

Sarà evidente al lettore il retaggio spirituale e religioso insito in questa idea di lontananza e intangibilità della cui sovversione vogliamo dare testimonianza in questo scritto, muovendo da due presupposti o «circostanze entrambe connesse con la sempre maggiore importanza delle masse nella vita attuale. E cioè: rendere le cose, spazialmente e umanamente più vicine è per le masse attuali un’esigenza vivissima, quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione».

Una chiave di lettura “più politica che estetica” gli rinfaccerà Cesare Brandi nella sua recensione della pubblicazione italiana, nel 1966, del saggio Piccola storia della fotografia. Secondo Brandi, Benjamin intendeva «salvare dall’opera d’arte quel tanto o quel poco che trapassa anche nella riproduzione, proprio per spegnerne definitivamente il carattere “cultuale”, vale a dire religioso, che sentiva stare ancora alla base». Ma per Brandi «nella secolarizzazione indotta dalla riproduzione, l’opera d’arte non perde solo il suo valore cultuale, perde se stessa. Resta un’impronta, come l’impronta del piede sulla sabbia».

Mantenendo le riflessioni di Benjamin quali punto di osservazione privilegiato da cui muovere ulteriori considerazioni, il momento di rottura e distruzione dell’aura si collocherebbe nell’affermarsi delle Avanguardie del primo Novecento. Secondo Benjamin, sarebbero stati i Dadaisti ad aver voluto per primi «uno spietato annientamento dell’aura dei loro prodotti, ai quali, coi mezzi della produzione, imponevano il marchio della riproduzione», intaccando contestualmente sia il concetto di originalità che di creatività dell’opera d’arte al grido della supremazia dell’idea (o, come da ricorsi storici, del “concetto”) sul manufatto. Tale atteggiamento ha evidentemente creato un’impasse non indifferente nel Sistema dell’Arte: da un lato la spinta all’emancipazione espressiva di matrice ottocentesca (fu Courbet ad inaugurare l’epoca delle mostre indipendenti con una personale organizzata interamente a sue spese), dall’altra l’esigenza di conciliare il nuovo linguaggio espressivo con il Mercato dell’Arte ed il pubblico, posto che il vero – e dichiarato – obiettivo di questo movimento era suscitare la pubblica indignazione: «l’opera d’arte diventò un proiettile. Venne proiettata contro l’osservatore. Assunse una qualità tattile».

Il salto ulteriore che Benjamin non riesce a cogliere, anche alla luce degli esiti artistici successivi alla pubblicazione del suo volume, è che l’aura non si è dissolta, ma piuttosto si è spostata dall’opera d’arte all’artista, nel suo incessante sforzo di negare “l’oggetto” nella sua fruizione estetica, per innalzare l’idea.

Un ribaltamento di prospettiva che muove i passi dal Realismo, quando l’Arte assume una nuova funzione, non più celebrativa e tautologica, e si introducono nei dipinti personaggi e scene di vita quotidiana. Con le Avanguardie del primo Novecento, questi frammenti di realtà assumono una connotazione materica: è l’epoca dei collage cubisti e dadaisti. Questa sensibilità tattile investirà tutto il Novecento, come necessità di guidare l’Arte verso la riappropriazione della vita e del reale, superando quei valori ormai obsoleti legati all’astrazione e al tardo surrealismo. Il ventennio tra gli anni Cinquanta e Sessanta sarà segnato da una frattura delle frontiere culturali e dall’introduzione di una nuova idea di dimensione collettiva, scardinata dai vecchi retaggi morali.

Difatti, le condizioni economico-sociali legate alle conseguenze dell’ultima Grande Guerra confluiscono nell’individuazione di priorità diverse tra Europa e Stati Uniti d’America: questi ultimi, in particolare, lavorano sulla costruzione di un’identità nazionale forte, che possa competere con la lunga tradizione culturale del Vecchio Continente. Tuttavia, il progredire della società dei consumi permetterà il livellamento e l’unificazione del linguaggio culturale che, reinterpretato in chiave “domestica”, entra nelle case dei consumatori attraverso la pubblicità e nuove forme di espressione popolare 2.0.

Allan Kaprow, 18 Happening in 6 Parts1959

ENG

In the following years, the artist has woven several collaborations, among with the theater director Augusto Boal, among other things creator – at the beginning of the seventies – of the Theater of the Oppressed, an artistic form created with the aim to transform the figure of the paying public from a mere passive user to an active part, directly involved in the representation: a “spect – actor”, a spectator-actor who watches and stages at the same time, intervening in real time on the work.

It is in this wake that relational aesthetics developed in the 1990s, an art current theorized by the French critic Nicolas Bourriaud in 1996. In relational art, the observer is part of a community and precisely as a community – not as an individual – interacts with the work and becomes part of it: the artist, in these terms, transforms himself from creator to facilitator, offering the audience the tools to intervene in the space of dialogue, comparison and relationship opened by the artwork. An example of this is the work of Rirkrit Tiravanija, an artist of Thai origin who reinterprets the social moment par excellence, the meal, in an artistic key. With its Temporary Kitchens, improvised in the most famous museums in the world, it welcomes and delights visitors with traditional dishes of its culture, in a perfect setting for discussion and dialogue, beyond the museum – something very similar to what has been experienced, already in 1970 by the Fluxus artist Daniel Spoerry, who, inviting the guests of his exhibition to dinner and immortalizing the remains of the meal in plexiglass cases attached to the wall, had eliminated any distance between artist-work-audience.

In a climate of constant attention seeking among the audience, with the aim of surprising and triggering reactions, Art has instilled ever-increasing expectations in the common observer, which it shows no sign of disregarding. These hype standards have now reached incredible levels of involvement thanks to the help of new technologies, the expressive mediums of the artist of the 21st century. In fact, it is precisely digital technologies that have assumed a decisive role in the development of the spectator-artwork interaction, opening the way to infinite expressive possibilities hitherto unthinkable.

In this sense, the introduction, in the creative process, of software and hardware capable of implementing 2D and 3D images in the dimension of the artwork, not only in terms of execution, but also of fruition, was crucial: in a interconnected world, Art travels at incredible speeds on the web and can reach a significantly wider audience. Digital art is, in some ways, more inclusive and communicative, both for its agile availability and accessibility, and for the language itself, as a mirror of the present time.

It is the birth of Net.Art, which is fully affirmed with the democratization and liberalization of the IT tool, passed from the hands of engineers only to the domain of the indistinct audience. The Net dematerializes the artistic object, which rather becomes a moment of reflection on relationships and a communicative tool beyond space-time limits.

In fact, Net.Art has an obvious added value: in terms of audience participation, if it is true that happenings and performances have greatly contributed to changing the viewer into an actor, physical presence or a video recording is still necessary to be able to enjoy them; by introducing the computer medium, however, it is possible to make the fruition always current and present.

ITA

Negli anni seguenti, l’artista ha intessuto diverse collaborazioni, tra le quali spicca quella con il direttore teatrale Augusto Boal, tra l’altro ideatore – all’inizio degli anni Settanta – del Theatre of the Oppressed, forma artistica creata con l’obiettivo di trasformare la figura del pubblico pagante da mero fruitore passivo a parte attiva, direttamente coinvolta nella rappresentazione: uno “spect – actor”, uno spettatore-attore che guarda e mette in scena contemporaneamente, intervenendo in tempo reale sull’opera.

È su questa scia che si sviluppa, negli anni Novanta, l’estetica relazionale, corrente d’arte teorizzata dal critico francese Nicolas Bourriaud nel 1996. Nell’arte relazionale l’osservatore è parte di una comunità e proprio come comunità – non come individuo – interagisce con l’opera e ne diventa parte: l’artista, in questi termini, si trasforma da creatore a facilitatore, offrendo al pubblico gli strumenti per intervenire nello spazio di dialogo, confronto e relazione aperti dall’opera d’arte. Ne è un esempio il lavoro di Rirkrit Tiravanija, artista di origine thailandese che reinterpreta in chiave artistica il momento sociale per eccellenza, ossia il pasto. Con le sue Temporary Kitchen, improvvisate nei musei più famosi del mondo, accoglie e delizia i visitatori con piatti tradizionali della sua cultura, in una perfetta cornice di confronto e dialogo, oltre il museo – qualcosa di molto simile, se vogliamo, a quanto sperimentato già nel 1970 dall’artista Fluxus Daniel Spoerry, che, invitando a cena gli ospiti della sua mostra e immortalando i resti del pasto in teche di plexiglass attaccate a parete, aveva azzerato ogni distanza tra artista-opera-pubblico.

In un clima di costante ricerca di attenzioni tra il pubblico, con l’intento di stupire ed innescare reazioni, l’Arte ha instillato nell’osservatore comune aspettative sempre maggiori, che non accenna a disattendere. Questi hype standards hanno oggi raggiunto livelli di coinvolgimento incredibili grazie all’ausilio delle nuove tecnologie, i medium espressivi dell’artista del XXI secolo. Difatti, sono proprio le tecnologie digitali ad aver assunto un ruolo determinante per lo sviluppo dell’interazione spettatore-opera d’arte, aprendo la strada ad infinite possibilità espressive fino a quel momento impensabili.

In questo senso, cruciale è stata l’introduzione, nel processo creativo, di software e hardware in grado di implementare immagini 2D e 3D nella dimensione dell’opera d’arte, non solo sotto il profilo esecutivo, ma anche della fruizione: in un mondo interconnesso, l’Arte viaggia a velocità incredibili sulla rete e può raggiungere un pubblico sensibilmente più vasto. L’arte digitale è, per certi versi, più inclusiva e comunicativa, sia per l’agile reperibilità ed accessibilità, che per il linguaggio in sé, quale specchio del tempo presente.

È la nascita della Net.Art, che si afferma pienamente con la democratizzazione e liberalizzazione dello strumento informatico, passato dalle mani dei soli ingegneri al dominio del pubblico indistinto. La Rete dematerializza l’oggetto artistico, che diventa piuttosto momento di riflessione sulle relazioni e strumento comunicativo oltre i limiti spazio-temporali.

In effetti la Net.Art ha un evidente valore aggiunto: in termini di partecipazione del pubblico, se è vero che happening e performance hanno contribuito notevolmente a mutare lo spettatore in attore, resta pur sempre necessaria la presenza fisica o una registrazione video per poterne godere; introducendo il mezzo informatico, invece, è possibile rendere sempre attuale e presente il momento della fruizione.

Kit Galloway & Sherrie Rabinowitz, Hole In Space, 1980

ENG

In 1980 the artists Kit Galloway and Sharrie Robinowitz created Hole in Space, an installation consisting of a satellite link between New York and Los Angeles lasting three consecutive nights, during which passers-by could spy and listen to one and the other city. The astonishment of the first day gave way, in the following evenings, to real improvised performances by passers-by, in this suspended and shared urban dimension: the Net behaves like a public and shared stage simultaneously.

However, Net.Art has also known another reading key, focused on the computer programming code, rather than on the relational potential of the Net. This is Software Art, to which we owe the merit of having opened reflection to the many ways to write and elaborate an instruction, according to processes inaccessible to the public. An example of this is the project entitled Web Stalking, created in 1997 by the London group I/O/D. It is a “conceptual” browser based on the interpretation of the HTML which, instead of presenting a traditionally formatted web page as a result of the search on the Net, reveals the system architecture to the user, showing the internal control codes in the form of “constellation”. A constantly changing map, in which the single elements are visually returned with circles and the links that connect them with lines. The goal of the project is to overcome the inability to communicate between computer and human language, making the user able to grasp the complexity of the former in a more accessible key. Software has its own creative role, it is a bearer of meaning and not simply an executive medium of functions. Hence the need to try to investigate the procedural modalities, also to reveal its “physical” consistency. Thus Tomás Maldonado, among others, reasoned about software in the mid-nineties: «It is debatable, for example, to define software as immaterial. On closer inspection, Software is a technology, that is, a cognitive tool that, directly or indirectly, contributes to material changes in the final analysis ».

These changes, which until the last century were intended to open the frontiers towards innovative channels of interconnection, today take the form of the possibility of creating new worlds and spaces in which to meet and live one’s experiences. Thanks to hardware and software interface systems such as gloves, helmets, glasses and three-dimensional graphics and processing programs, the user is catapulted into artificial environments that he can inhabit and live through his own movement; environments capable of giving him absolutely credible sensations. It is the triumph of the Platonic idea of​​”Art as mimesis of nature”: from modern devices to photography; from the introduction of real-sized objects into the painted space, to the active participation of the viewer as an actor in the artwork; from the global interconnection offered by the Internet, to immersion in fantastic, credible realities but the result of the creative flair of artists-designers.

With the application of virtual reality to the world of art, artists create entirely in the digital dimension worlds governed by their own laws, which materialize before the eyes of the observer, who can access the mind of their creator.

ITA

Nel 1980 gli artisti Kit Galloway e Sharrie Robinowitz realizzano Hole in Space, un’installazione che consiste in un collegamento satellitare tra New York e Los Angeles della durata di tre sere consecutive, durante le quali i passanti hanno potuto spiare e ascoltare l’una e l’altra città. Lo stupore del primo giorno ha lasciato il passo, nelle serate successive, a vere e proprie performance improvvisate dai passanti, in questa dimensione urbana sospesa e condivisa: la Rete si comporta come un palcoscenico pubblico e condiviso simultaneamente.

Tuttavia, la Net.Art ha conosciuto anche un’altra chiave di lettura, incentrata sul codice di programmazione informatico, piuttosto che sulle potenzialità relazionali della Rete. Si tratta della Software Art, cui si deve il merito di aver aperto la riflessione ai molteplici modi di scrivere ed elaborare un’istruzione, secondo processi inaccessibili al pubblico. Ne è un esempio il progetto titolato Web Stalking, realizzato nel 1997 dal gruppo londinese I/O/D. Si tratta di un browser “concettuale” basato sull’interpretazione dell’html che, invece di presentare come esito della ricerca in Rete una pagina web tradizionalmente formattata, svela all’utente l’architettura del sistema, mostrandone i codici di controllo interno sotto forma di “costellazione”. Una mappa in continuo mutamento, in cui i singoli elementi sono restituiti visivamente con dei cerchi ed i link che li collegano con delle linee. L’obiettivo del progetto è oltrepassare l’incomunicabilità tra linguaggio informatico e umano, rendendo l’utente in grado di cogliere la complessità del primo in una chiave a lui più accessibile. Il software ha un suo ruolo creativo, è portatore di senso e non semplicemente un medium esecutivo di funzioni. Da qui la necessità di provare ad indagarne le modalità processuali, anche per svelarne la consistenza “fisica”. Così Tomás Maldonado, tra gli altri, ragionava nella metà degli anni Novanta sul software: «È discutibile, per esempio, definire immateriale il software. A ben guardare il Software è una tecnologia, ossia uno strumento cognitivo che, in modo diretto o indiretto, contribuisce a conti fatti a mutamenti di natura materiale».

Tali mutamenti, che fino al secolo scorso erano intesi ad aprire le frontiere verso innovativi canali di interconnessione, oggi si concretizzano nella possibilità di creare nuovi mondi e spazi in cui incontrarsi e vivere le proprie esperienze. Grazie a sistemi di interfaccia hardware e software quali guanti, caschi, occhiali e programmi di grafica ed elaborazione tridimensionale, l’utente viene catapultato in ambienti artificiali che può abitare e vivere attraverso il proprio movimento; ambienti in grado di restituirgli sensazioni assolutamente credibili. È il trionfo dell’idea platonica di “Arte come mimesi della natura”: dagli espedienti moderni, alla fotografia; dall’introduzione di oggetti della dimensione reale nello spazio dipinto, alla partecipazione attiva dello spettatore quale attore dell’opera d’arte; dalla interconnessione globale offerta dalla Rete, all’immersione in realtà fantastiche, credibili ma frutto dell’estro creativo di artisti-designers.

Con l’applicazione della realtà virtuale al mondo dell’Arte, gli artisti creano interamente nella dimensione digitale dei mondi regolati da proprie leggi, che si materializzano davanti agli occhi dell’osservatore, che può accedere alla mente del loro creatore.

Artist Giant Swan sculpting in VR